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44a Edizione dello Skopje Jazz Festival: il festival macedone diretto da Oliver Belopeta è uno degli appuntamenti più longevi e interessanti dell’area balcanica

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16-19 ottobre 2025

Quarantaquattro edizioni: il festival macedone diretto da Oliver Belopeta è uno degli appuntamenti più longevi e interessanti dell’area balcanica, ricca di numerose consolidate iniziative e fermenti artistici. Quest’anno, quattro giorni di concerti nel consueto, ampio spazio del National Opera and Ballet, dall’ottima acustica.

L’inizio era affidato a un trio polacco, quello del pianista Andrzej Jagodziński, con Adam Cegielski al contrabbasso e Czeslaw Bartkowski alla batteria. Classe 1953, formazione classica, collaborazioni importanti in patria (Namysłovsky, Szukalski per citarne un paio), dagli anni Novanta il pianista si è dedicato a far convergere in un unicum musicale le sue due passioni, la musica classica e il jazz. A Skopje ha eseguito un repertorio tutto bachiano e chopeniano, con gusto e misura, per un jazz mainstream di qualità, tutto giocato sull’interazione fra i componenti del trio, impegnati a trattare in chiave swing pagine immortali come il Preludio n. 1 in do maggiore e la Partita in do minore di Bach e il Preludio in mi minore di Chopin. A seguire, dopo la premiazione da parte del direttore del pianista Gordan Spasovski, artista jazz macedone dell’anno, la National Jazz Orchestra diretta da Sigi Feigl con ospite il trombonista Luis Bonilla. Una delle big band balcaniche più importanti, insieme al mitico trombonista della Brass Fantasy di Lester Bowie, che come Feigl insegna da anni a Graz presso l’Università della Musica e delle Arti Performative. Un concerto altamente efficace, nel solco della grande tradizione delle migliori big band statunitensi, nell’esecuzione di composizioni principalmente di Bonilla, che ha avuto il ruolo principale con il suo trombone elegante e carico di swing, ottimamente supportato da una compagine orchestrale semplicemente perfetta, nella quale si sono distinti sia il pianista Spasovski sia alcuni altri solisti.

Nella seconda serata il festival ha volato ancora più alto: l’inizio era affidato al set in solo di Marc Ribot. Alternandosi tra ukulele, chitarra acustica e chitarra elettrica, questi ha ripercorso parte delle canzoni da lui composte per l’album «Map of a Blue City», nel quale si è impegnato in una esperienza cantautorale, o meglio da moderno griot, quasi un cantastorie, in questo buio periodo della storia statunitense (e non solo statunitense). Il suo è un canto vero, scarno, folclorico nel senso più proprio del termine, nel quale la voce è piana, semplice, perfetta per descrivere, raccontare storie, a volte declamare versi ginsberghiani, con un taglio meditativo ma anche spesso fortemente ironico, come nel brano sull’Empire State Building o in quello in cui Noè costruisce la sua arca per salvare la biodiversità. A tratti Ribot ha imbracciato la Fender, donando momenti intensamente noise. Finale doverosamente dedicato alla sua versione in inglese di Bella Ciao, preceduto da un forte intervento politico contro l’attuale presidente USA.

Il quartetto Ethnic Heritage Ensemble del batterista, percussionista e cantante Kahil El’Zabar (Corey Wilkes tromba e percussioni, Alez Hardin sax baritono e percussioni, Ishmael Ali violoncello), ha mirabilmente ricondotto l’uditorio alla scena chicagoana degli anni ’70 del secolo scorso. Un quartetto fondato nel lontano 1974 – con l’avvicendarsi di diversi componenti – che può considerarsi a ragion veduta erede dell’AEOC. Il leader ha suonato a lungo una kalimba prodigandosi anche in un assolo di grande qualità, il cajon e la batteria, conducendo la musica verso territori decisamente familiari per chi ha amato e ama la scena chicagoana di quegli anni. Sul sostegno ritmico-armonico del violoncello, e con l’elastico drumming del leader, Wilkes e Hardin hanno volato alto con i loro strumenti, restando sempre attivi anche oltre i momenti solistici con l’uso di piccole percussioni e della voce. Un graditissimo e coinvolgente ritorno alla Great Black Music, cantata dal quartetto nel corso dell’applauditissimo set, che si è concluso con un intenso bis sulle immortali note di Lonely Woman di Ornette Coleman.

La terza serata del festival, dedicata interamente al Suono del Nord, per utilizzare il titolo del fondamentale volume di Luca Vitali, è stata preceduta dalla proiezione pomeridiana del documentario Sun Ra: do the Impossible di Christine Turner. Ottima produzione, basata su numerose fonti d’archivio e ricca di pregevoli interviste, per un interessante excursus sulla storia dell’Arkestra.

After the Wildfire è il quartetto norvegese composto da Arve Henriksen (tromba, trombino, flauto, voce), Jan Bang (live sampling, elettronica), Eivind Aarset (chitarra) e Ingar Zach (percussioni). Il nome del gruppo nacque grazie alla commissione del festival macedone, che due anni addietro fece incontrare Henriksen e Bang con la Fames Institute Orchestra. La relativa registrazione è oggi disponibile in cd per i tipi della Punkt Editions, appunto con il titolo di «After the Wildfire». Anche il concerto del quartetto è stato registrato, dunque prossimamente verrà edito. Il quartetto è un perfetto esempio di un risultato artistico superiore alla semplice somma dei suoi componenti, e ogni momento, che sia composto o improvvisato, mostra i segni di una totale condivisione. Musica a tratti algida, ma precisa, profonda, ipnotica, tutta giocata su un preziosissimo lavoro sul suono, sulle sfumature, con Henriksen che si alterna fra diversi strumenti e usa frequentemente e con piena efficacia la voce. Il percussionista svolge un lavoro finissimo sul suo set apparentemente semplice ma ricco di innumerevoli strumenti, Aarset e Bang impreziosiscono il tutto con le loro note qualità. La musica si muove anche verso territori aspri, selvatici, ed è come ritrovarsi improvvisamente in una natura fredda, ostile, per poi tornare a placarsi e a ritrovare il suono della tromba soffiato, sabbioso, sempre affascinante. Non resta che attendere la pubblicazione del disco live.

Tropiques è invece il nome della formazione diretta dal trombettista e tastierista Goran Kaifeš, alla guida di un doppio quartetto. Quattro archi, tra i quali il violoncello di Leo Svensson e il violino di Jane Bakeski (responsabili degli arrangiamenti degli archi) e Alex Zethson al pianoforte e tastiere, Jonah Berthing al contrabbasso e Johan Holmegard alla batteria. Un progetto molto ben costruito, con forti e felici componenti minimaliste, basato sulla feconda interazione tra i due quartetti, su strutture ampie e dilatate, sul lavoro solistico pregevolissimo del leader e del pianista, con una ritmica dinamica ed elastica, per un set di grande impatto, da parte di un leader che a Skopje è stato presente più volte negli ultimi anni, come del resto nei principali festival europei, con gli innumerevoli gruppi di cui fa parte.

«Angel Falls» è il titolo del disco del duo di Wadada Leo Smith e Sylvie Courvoisier. Storico protagonista e artefice di una parte significativa del jazz più creativo dell’ultimo cinquantennio, sempre attivissimo dal vivo e sul fonte discografico (negli ultimi tempi, oltre al citato disco in duo edito da Intakt sono usciti anche per Ecm «Defiant Life» con Veejay Iyer e «Murasaki», Loveland Music, con Marcus Gilmore e Jacob Bro), nel duo con la pianista svizzera, attenta a cogliere le intenzioni improvvisative e a interagire mirabilmente, ha ancora una volta donato il suono pieno e corposo della sua tromba, a volte sordinata, nel rinnovarsi di un rito che non è mai tale, fra alea e tonalità, con una totale interazione, nella quale Courvoisier segue, ma spesso prevede e anticipa le mosse di Wadada. Un incanto.

La conclusione del festival era affidata al James Brandon Lewis Quartet, con Aruán Ortiz al pianoforte, Brad Jones al contrabbasso e Chad Taylor alla batteria. Questo quartetto è solo una delle diverse formazioni del nostro, oggi quarantaduenne, da tempo tra i protagonisti di punta del jazz odierno. Nel suo suono e nel suo frenetico fraseggio convergono le più importanti esperienze del sax tenore nel jazz moderno, ricomposte in una sintesi personale, immediatamente riconoscibile, di enorme impatto. Il quartetto è risultato totalmente calibrato per eseguire le belle composizioni originali del leader, vivace, centrato, dinamico, senza alcun momento di stanca, per una memorabile conclusione del festival macedone.