Home Concerti 44ma edizione dell’International Saalfelden Jazz Festival 2024: in una parola, imprescindibile.

44ma edizione dell’International Saalfelden Jazz Festival 2024: in una parola, imprescindibile.

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Imprescindibile. Se si volesse descrivere il Jazzfestival Saalfelden con un solo aggettivo, sarebbe esattamente questo, imprescindibile. Il festival austriaco, quello che segna la temperatura del jazz internazionale odierno, è giunto alla edizione n. 44. Ha proposto come sempre una miriade di eventi in diversi spazi al chiuso e all’aperto, compresi concerti mattutini nei boschi e in un lago. Chi scrive ha seguito una parte della corposa programmazione, guidato dalle proprie competenze ma anche da una buona dose di curiosità per le scelte del direttore artistico Mario Staedl.

Iniziamo segnalando, nell’ordine, le cose che più hanno convinto. A cominciare da JB Lewis con “The Messthetics”. Questo gruppo è costituito da due elementi di un vecchio gruppo rock, i Fugazi, il bassista Joe Lally e il batterista Brendan Canty, che nel 2018 hanno coinvolto un chitarrista decisamente fuori dall’ordinario e dai generi – nel senso che ne attraversa diversi con estrema disinvoltura – come Anthony Pirog. Alcuni mesi addietro, il trio ha registrato per l’etichetta Impulse! con uno dei principali protagonisti del jazz odierno, James Brandon Lewis. Il risultato, come ben può immaginare chi ha già ascoltato il citato disco, non poteva che essere sorprendente. Un JB Lewis trascinante come sempre, in un contesto brillantemente rock, nel quale il suono robusto del tenore si incontra e si scontra con la potentissima chitarra elettrica di Pirog, con dietro una ritmica poderosa e incalzante. Cosa volere di più? Una delizia per chi non si crea problemi di confini fra generi musicali.

Il concerto finale nel mainstage era affidato al quartetto “The Throw” del violoncellista Erik Friedlander, con Uri Caine al pianoforte, Mark Helias al contrabbasso e Ches Smith alla batteria. Un concerto di chiusura perfetto, una musica ricca di contagioso swing, gioiosa, festosa, coinvolgente, creativa, suonata con intensità da un gruppo superlativo attivo da anni, che ha già licenziato due album, «Artemisia» e «A Queens’ Firefly», editi dall’etichetta di Friedlander Skipstone Records, e che esegue gli splendidi brani del leader come meglio non si potrebbe, celebrandone la ricchezza e varietà compositiva. Impagabile riascoltare il colorito pianismo di Caine, la perizia del leader, la dinamicissima ritmica di Helias e Smith.

Il quartetto della violoncellista Tomeka Reid (con Mary Halvorson alla chitarra, Jason Roebke al contrabbasso e Tomas Fujiwara alla batteria), con all’attivo tre ottime incisioni («Tomeka Reid Quartet», Thirsty Year, 2015; «Old New», Cuneiform, 2019; «3+3», Cuneiform, 2024), è una formazione che dal vivo convince sempre, grazie ai mirabili equilibri interni, alla bellezza delle composizioni della leader e all’apporto dei partner, specie della Halvorson, una musicista che non manca di sorprendere per la sua costante crescita e incisività. Formidabili improvvisatori, passano con disinvoltura da momenti informali a strutture compositive piene e pregnanti, in un magico sodalizio tra violoncello e chitarra e una ritmica puntuale, per una musica compiuta e coinvolgente, con un senso del collettivo ragguardevole.

«Chimaera» è il titolo del disco della pianista Sylvie Courvoisier pubblicato nel 2023 per Intakt ed è anche il nome della formazione che ha suonato al festival, con alcune assenze rispetto al disco (Wadada Leo Smith; Nasheet Waits al posto di Kenny Wollesen) ma con l’ottima aggiunta di Patricia Brennan al vibrafono. Chi ha avuto l’occasione di ascoltare l’album ne ha potuto apprezzare la profondità espressiva e la ricchezza di contenuti delle estese composizioni che contiene. A Saalfelden, se ovviamente si sentiva la mancanza della tromba di Smith, gli equilibri musicali sono stati garantiti dalla presenza, davvero importante e perfettamente integrata nel contesto, di Brennan. Il suono profondo del contrabbasso di Greg Cohen, il rigoglioso pianismo della leader, così intriso di studi classici e di versatilità improvvisativa, la tromba discreta, spesso sordinata di Nate Wooley, la chitarra elettrica filtrata di Christian Fennesz, in un concerto fascinoso, non semplice ma coinvolgente e memorabile, fatto a tratti di atmosfere sognanti che ricordavano certe atmosfere rypdaliane, del fulgido ed eclettico drumming di Waits, delle volate solistiche della leader, di ritmi suadenti ed elaborati.

La “Brainteaser Orchestra” è una big band di tredici elementi facente base ad Amsterdam, diretta da Tijn Wybenga -anche autore delle composizioni -, della quale fanno parte anche due musicisti italiani, il clarinettista Federico Calcagno e il contrabbassista Alessandro Fongaro. Tra i componenti anche il trombettista Alistair Payne e Teis Semey alla chitarra. Una bella scrittura orchestrale chiara e leggibile e validi arrangiamenti, l’ottimo chitarrista in primo piano, valorizzati i solismi di Calcagno e Payne e il trombone di Nabou Claerhout, in un concerto che non ha mancato di convincere, per il riuscito equilibrio tra archi e fiati e per l’integrazione tra scrittura e improvvisazione.

Trio stellare capeggiato dalla pianista statunitense Kris Davis, con Robert Hurst al contrabbasso (essenziale per gli equilibri della formazione) e Johnathan Blake alla batteria (strepitoso come sempre). La Davis, con i suoi temi spesso spigolosi tra Monk e Lacy, ha una sua personale concezione dello swing che caratterizza peculiarmente il suo stile, e ne fa una delle più interessanti pianiste in attività. Una proposta rigorosa e austera, con preziose progressioni armoniche, un tocco pianistico di alta qualità, un fraseggio mai compiacente. Composizioni originali e intensi omaggi a Wayne Shorter, tra cui Dolores, e una song delicatissima con un solo di contrabbasso all’archetto da antologia.
Il duo Leïla Martial-Valentin Ceccaldi, che l’anno passato ha inciso il disco «Le Jardin Des Délices» per BMC Records, ha proposto alcuni brani di questo, centrando l’obiettivo con un lavoro sulla forma canzone, con brani che andavano da successi di Barbara, a Henry Purcell, ad Asturias di De Falla. Il duo mostra un profondo amore per la canzone, rivissuto attraverso le rispettive attitudini improvvisative. La cantante (che è più opportuno definire performer, per le sue innumerevoli competenze artistiche), ha espresso alcune delle sue innumerevoli possibilità vocali, affascinando l’uditorio con la finezza delle sfumature e l’energia che a tratti non ha mancato di sfoderare.

The End” è uno dei gruppi creati dall’infaticabile Mats Gustafsson: Sofia Jernberg, voce; Kjetil Møster, clarinetto, tenore; Anders Hana, basso; Børge Fjordheim, batteria. Energia pura, urlo belluino che pare stemperarsi all’ingresso della voce, una delle incarnazioni del verbo gustafssoniano, oscillante tra poesia e brutalità, con atmosfere dark, animate da sprazzi di suono infuocato del baritono, momenti disperati e privi di luce, carichi di ossessioni e fantasmi, in una probabile metafora dell’epoca che stiamo vivendo. Solo la splendida voce di Jernberg stempera la tensione in un canto che ammansisce e pacifica, fino al ritorno a climi scuri, enigmatici, laceranti.

Bonbon Flamme” è un quartetto franco-belga-portoghese, attivo da un paio d’anni e composto dal violoncellista Valentin Ceccaldi, dal pianista e tastierista Fulco Ottervarger, dal chitarrista Luis Lopez e dal batterista Étienne Ziemniak. “All in one” ha definito la loro musica il presentatore, ma un all in one collegato dal filo comune dell’ironia e dell’autoironia, in un gioco di ricerca e costruzione della forma per poi “sporcarla” e decostruirla, dove le competenze tecniche dei quattro giocavano un ruolo fondamentale per catturare l’uditorio e condurlo sulle loro strade. Interessante l’uso delle voci da parte del pianista e del batterista, in una ricerca musicale leggibile, con venature di rock progressivo, alcune intemperanze free, interessanti cambi d’atmosfera, grande attenzione alle dinamiche, senza un attimo di stasi creativa. La loro ironia è stata esercitata anche nei confronti di Scott Joplin, con l’esecuzione di un esilarante Ragtime Dance in una versione “post punk”.

La vocalist indiana attiva negli USA Amirtha Kidambi, con il suo quintetto, ha reso omaggio alla collega scomparsa Jamie Branch in un concerto denso di impegno politico contro la discriminazione degli asiatici negli Stati Uniti, contro il razzismo e per le proteste dei contadini in India. Bella e forte personalità, quella espressa da Amirtha, con una voce ferma e assertiva, organetto e synth, e un gruppo coeso e agguerrito, che segue le attuali tendenze della più avanzata musica newyorkese.

Therapie de couple” è un sestetto franco-tedesco costituito per Jazzahead! 2023 dal sassofonista Daniel Erdmann, con Vincent Courtois (violoncello), Theo Ceccaldi (violino), Hélène Duret (clarinetti), Robert Lucaciu (contrabbasso) ed Eva Klesse (batteria). Una scrittura densa, con il generoso sax del leader in buona evidenza, e il gioco dialettico delle corde che si stagliava su una ritmica efficace e puntuale. Spazio anche per la clarinettista e per i virtuosismi di Ceccaldi e Courtois, impegnati anche in sapidi duetti; anche atmosfere minimaliste, che andavano a costituire i momenti migliori del set.

La clarinettista iraniana di stanza a Vienna Mona Matbou Riahi, con il suo trio e il supporto di effetti visivi, ha proposto atmosfere elettroniche di taglio minimalista e piuttosto dark, con il suono del clarinetto filtrato e suggestivo e un uso della voce che rimandava ad atmosfere etniche legate alle sue origini.

La litanie des cimes”, il trio del violinista Clément Janinet con Elodie Pasquier al clarinetto e Clément Petit al violoncello, con il suo tipico gioco dialettico tra gli strumenti a corda e il clarinetto, e i consueti omaggi a Steve Reich. ù

Post Koma” il nome del quintetto del contrabbassista svedese di casa a Berlino Petter Eldh, che ha inciso per la finlandese We Jazz. Nasce dalla precedente formazione Koma Saxo, e utilizza ampiamente il pianoforte di Kaja Draxler e la voce di Sofia Jernberg, in una ricerca non particolarmente risolta e priva di elementi di novità, pur nella nota ed evidente competenza dei musicisti coinvolti.