Home Lezioni Dalle piantagioni alla danza: il ritmo del corpo. Sulle origini afroamericane del...

Dalle piantagioni alla danza: il ritmo del corpo. Sulle origini afroamericane del linguaggio ritmico che diventerà jazz.

98
0

La storia del jazz comincia prima del jazz. Prima delle sale d’incisione, dei microfoni e dei palchi, c’è un mondo di voci, corpi e ritmi che si forma nel Sud degli Stati Uniti tra Ottocento e primo Novecento. È un paesaggio sonoro nato nel dolore della schiavitù, cresciuto nella comunità nera e maturato entro un contesto sociale segnato da segregazione, migrazioni interne e modernizzazione. Qui indaghiamo il nesso tra pratica corporea e forma musicale, dalle work songs e dal call and response ai cakewalks, fino alla scrittura ragtime, ponte decisivo verso il jazz.

Nelle piantagioni del profondo Sud, tra Louisiana, Mississippi, Alabama, Georgia e le Caroline, la matrice africana sopravvive alla diaspora atlantica attraverso pratiche musicali non notate: canto responsoriale, poliritmie, ostinati vocali, danze comunitarie. La musica è funzionale, coordina il lavoro, marca il tempo, cementa l’identità, comunica ciò che non si può dire. Il perno formale è la struttura del call and response: una voce guida, il leader, lancia la chiamata, il gruppo risponde, creando spazio ritmico, dislocando gli accenti, predisponendo l’orecchio a quella elasticità che più tardi riconosceremo come swing potenziale. Le work songs e i field hollers non sono un genere estetico, sono un dispositivo sociale che sincronizza il gesto, alleggerisce la fatica, veicola messaggi e, quando occorre, nasconde codici e avvertimenti.

Con la fine della Guerra Civile nel 1865, e con il XIII Emendamento che abolisce la schiavitù, la libertà è spesso solo giuridica. Nel Sud, a causa di leggi discriminatorie e pratiche come il convict leasing, migliaia di afroamericani vengono impiegati come carcerati-lavoratori in miniere, fattorie e lavori pubblici tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. In questo quadro, il canto collettivo e il ritmo del corpo restano strumenti di coesione e sopravvivenza, in questo contesto, la musica non è un passatempo, ma diventa infrastruttura sociale.

Tra gli anni settanta dell’Ottocento e i primi del Novecento si afferma il cakewalk, danza spettacolare eseguita da coppie nere in contesti popolari, cortili, teatri e poi circuiti di vaudeville. Il nome viene dal premio, una torta, destinato ai vincitori. Il gesto è parodico, posture rigide, saluti, riverenze che mimano e ironizzano sui modi dei bianchi. È una sovversione giocosa, il corpo nero si riappropria delle regole del decoro, ne mostra l’artificio, le rovescia in arte. Musicalmente, il cakewalk assume pulsazione binaria dalla marcia europea, ma la sincopi sposta e “sporca” l’accento, il battere non è più dogma. Questo ibrido, marcia e sincopi, è un prototipo della futura estetica afroamericana. Nel giro di pochi anni il cakewalk esce dal Sud, approda nei teatri del Nord, in particolare a New York, e varca l’Atlantico. A Parigi, Claude Debussy inserisce Golliwog’s Cakewalk nella suite Children’s Corner, 1908, segno di una penetrazione ormai evidente del ritmo afroamericano nella musica colta europea.

La vera svolta avviene quando il pianoforte diventa il medium privilegiato della nuova pulsazione. Tra fine Ottocento e primo Novecento, nei barrelhouse, negli honky-tonk e nelle piccole sale da ballo di Sedalia, St. Louis, New Orleans e Memphis, i pianisti afroamericani traducono il linguaggio corporeo in forma scritta, dando vita al ragtime. “Rag-time” significa letteralmente tempo sfilacciato, ragged: la mano sinistra del pianoforte mantiene il basso “om, pah”, erede della marcia e embrione dello stride, la destra muove sincopi e controtempi sulla melodia. Formalmente i rag sono spesso costruiti in quattro sezioni di sedici battute, con modulazioni e ritorni tematici, ordine europeo nella costruzione, libertà africana nell’accentuazione. A differenza delle pratiche orali precedenti, il ragtime entra nel mercato come musica pubblicata, spartiti e piano rolls per pianola, arrangiamenti domestici. Tra il 1895 e il 1917 si forma una prima industria musicale afroamericana, editori, autori, interpreti e un pubblico che acquista musica nera scritta da musicisti neri.

In termini divulgativi, si può dire così: in una marcia regolare l’accento cade sul battere, uno, due, tre, quattro, mentre la sincopi sposta l’accento sul levare, o lo anticipa, o lo ritarda, generando l’“elastico” che l’ascoltatore percepisce come dondolio. È la precondizione dello swing.

Scott Joplin

In questo paesaggio, Scott Joplin si impone come canonizzatore del ragtime. Nato a Texarkana nel 1868, figlio di ex schiavi, impara il pianoforte dove può, spesso nelle case in cui la madre lavora come domestica, quindi si sposta nel Missouri, a Sedalia e poi a St. Louis, dove la scena editoriale e didattica è vivissima. Nel 1899 l’editore John Stark pubblica Maple Leaf Rag, che diventa il manifesto del genere. La struttura è quella citata, quattro strain ordinati, ma la mano destra sincopa la melodia sopra una sinistra regolare, ordine e tensione che coesistono. Il brano circola in modo straordinario su spartiti e piano rolls, entra nelle case e nei teatri, supera confini sociali e razziali. Nei primi due decenni del Novecento Joplin firma altri titoli ormai canonici, The Entertainer, 1902, The Easy Winners, 1901, Pine Apple Rag, 1910, e tenta l’approdo alla scena colta con Treemonisha, 1911, un’opera che unisce educazione ed emancipazione in un racconto musicale moderno. L’opera non troverà realizzazione adeguata durante la sua vita, ma oggi è riconosciuta come un tassello fondamentale. Joplin muore nel 1917 a New York, mentre nello stesso anno a New Orleans viene chiuso il quartiere di Storyville, fine simbolica dell’era pre-jazz.

Tom Turpin

Non si può parlare di ragtime come di un genio isolato. Scott Joplin fu certamente il suo faro, ma attorno a lui si mosse una vera e propria scuola, un laboratorio collettivo di musicisti che, tra il Midwest e il Golfo, trasformarono un linguaggio in movimento culturale. A St. Louis, la figura di Tom Turpin, 1871, 1922, dominava la scena, proprietario di un saloon frequentato da musicisti e viaggiatori, mentore e organizzatore di una comunità che suonava e discuteva musica notte e giorno. Nel 1897 pubblicò Harlem Rag, uno dei primi brani scritti da un autore afroamericano a circolare su scala nazionale, aprendo la strada agli altri. Poco più giovane, James Scott, 1885, 1938, portò nel Missouri un’eleganza compositiva nuova, e nei suoi Frog Legs Rag e Grace and Beauty si respira un senso melodico raffinatissimo, un equilibrio esemplare tra cantabilità e architettura formale.

James Sylvester Scott

Accanto a loro si muoveva Joseph Lamb, 1887, 1960, l’unico bianco tra i cosiddetti tre grandi del ragtime, scoperto e incoraggiato da Joplin, capace di fondere sensibilità europea e ritmo sincopato afroamericano in rags lirici e solidi come Sensation Rag. Più a sud, a New Orleans, viveva Tony Jackson, 1882, 1921, personaggio leggendario, cantante e pianista capace di passare con naturalezza dal ragtime al blues, trasformando la tecnica in emozione. La sua influenza su Jelly Roll Morton e sul primo jazz dei bordelli di Storyville fu diretta e profonda. Questi artisti, disseminati tra Sedalia, St. Louis, New Orleans e Memphis, e poco dopo Chicago e Kansas City, formarono una costellazione viva, la cui musica, scritta o improvvisata, tracciò la geografia del ragtime, che di lì a poco sarebbe diventata anche la mappa del primo jazz.

Tony Jackson

Il ragtime, più che uno stile, divenne un sistema musicale completo, la prima vera industria afroamericana del suono. Tutto cominciò con la stampa musicale, che negli anni Novanta dell’Ottocento conobbe una diffusione senza precedenti. In città come Sedalia, St. Louis e New York, editori e copisti misero in circolazione migliaia di spartiti e di piano rolls per la pianola domestica. Per la prima volta la musica nera non viveva soltanto di memoria o di trasmissione orale, poteva essere scritta, venduta e archiviata.

La pubblicazione fissava un repertorio, consolidava uno stile, e soprattutto rendeva visibile e tracciabile il lavoro degli autori afroamericani, fino ad allora esclusi dai registri ufficiali dell’editoria musicale. A dare respiro a questo circuito furono le migrazioni interne, che spinsero musicisti, orchestrine e famiglie lungo le linee ferroviarie che collegavano il Sud rurale al Midwest urbano. Il treno divenne un veicolo culturale, portava strumenti, spartiti e idee. Sedalia e St. Louis si affermarono come centri della scrittura e della stampa, mentre New Orleans si confermò crocevia dove il ragtime incontrava il blues e le brass band, generando le prime forme di jazz. Infine ci fu la dimensione dello spettacolo: teatri di varietà, saloon e circuiti di black vaudeville offrirono a centinaia di pianisti e complessi neri palcoscenici e reti professionali. La musica sincopata, nata nei cortili e nei baracconi del Sud, entrava nelle sale pubbliche e nelle case borghesi, diventando un linguaggio condiviso, popolare e colto, scritto e improvvisato, commerciale e identitario. In questo intreccio di editoria, migrazioni e spettacolo, il ragtime fece sistema, trasformando la creatività afroamericana in una moderna economia della musica.

Il passaggio dal ragtime al jazz non fu una frattura improvvisa, ma un’evoluzione naturale, una mutazione del ritmo e della funzione sociale della musica. Intorno al 1910 la pulsazione ordinata e scritta del ragtime cominciò a sciogliersi nelle mani dei musicisti del Sud. Quel tempo sfilacciato che Joplin aveva messo sulla carta divenne un organismo vivente, suonato nei bar, nelle feste, nei bordelli di New Orleans, dove la precisione del pianoforte lasciava spazio alla libertà dell’ensemble. Dal punto di vista formale, la differenza è sottile ma decisiva: nel ragtime la mano sinistra regge un basso regolare, mentre la destra gioca con le sincopi, nel jazz la pulsazione si distribuisce tra gli strumenti, il tempo non è più scritto, nasce dall’interazione tra batteria, contrabbasso, chitarra o banjo e fiati, le sincopi diventano swing, l’accento si piega, il ritmo respira con maggiore libertà. Il pianoforte solitario del Missouri lascia il posto alle piccole band di New Orleans, dove la melodia si moltiplica in improvvisazioni collettive. Sul piano sociale, il ragtime aveva dimostrato che una musica nata nella cultura nera poteva essere pubblicata, venduta e studiata, e il jazz eredita quella consapevolezza e la porta nel nuovo secolo, sostenuta dalle migrazioni afroamericane verso il Nord industriale e dalle prime registrazioni discografiche. Dopo il 1917, anno simbolico della morte di Scott Joplin e della chiusura di Storyville, la musica sincopata prende definitivamente il nome di jazz. È l’inizio di una stagione nuova: la scrittura lascia spazio all’improvvisazione, e la libertà del corpo diventa linguaggio universale.

Il lungo viaggio dalle piantagioni al ragtime racconta più di una semplice evoluzione musicale: è la storia di come un popolo trasformò il dolore in forma, la fatica in ritmo, la memoria in arte. Dalle work songs intonate nei campi al pianoforte di Scott Joplin, ogni fase porta con sé un modo diverso di concepire il tempo. Per la cultura afroamericana il ritmo non è solo misura, è coscienza del tempo vissuto, un gesto collettivo che resiste, si adatta, sopravvive alle ingiustizie. Quando quel ritmo, nato dal corpo e dalla voce, si sposta sullo strumento e poi sulla carta, diventa pensiero musicale moderno. Il ragtime non è soltanto l’anticamera del jazz, è la prima traduzione scritta di una visione del mondo in cui la libertà non distrugge l’ordine, ma lo trasforma. Nelle sincopi, nei controtempi, nelle pulsazioni che si muovono controcorrente si sente la nascita di una nuova idea di tempo, flessibile, mobile, profondamente umana, da lì al jazz il passo è breve e quasi inevitabile. Quando quella logica ritmica incontra le brass band di New Orleans, le rotte migratorie verso Chicago e New York, e infine la tecnologia del disco, il linguaggio diventa idioma identitario condiviso e trasmissibile.