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Ai Confini tra Sardegna e Jazz 2021 – XXXVI Edizione – “Approdo ad Atlantide: l’uomo che Varca i Confini”

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31 agosto-4 settembre 2021 – S. Anna Arresi
foto di Luciano Rossetti, Agostino Mela, Ziga Koritnik, Danilo Codazzi

Basilio Sulis, storico fondatore e direttore artistico del festival Ai Confini tra Sardegna e Jazz, è morto la mattina dell’11 novembre 2020, a 72 anni. Da tempo pensava alla sua successione: voleva lasciare il festival in mani che non tradissero lo spirito della manifestazione nata nel 1985. Ma non ha fatto in tempo a gestire personalmente il passaggio di consegne alla nuova direzione artistica, che pure lo stava affiancando da alcuni anni.

Il festival come lo ha voluto Basilio Sulis (ma per tutti era semplicemente Basilio, tanto che il cognome era caduto nel dimenticatoio) appare come una bella utopia realizzata, assieme al forte idealismo culturale, sociale, politico e civile che lo ha sempre sostenuto. Questa XXXVI edizione, che Basilio ha avuto il tempo solamente di abbozzare, ha continuato nel solco da lui tracciato, senza snaturarne le impostazioni controcorrente, coerenti e anticonformiste: ovvero l’individuazione di un tema specifico a cui attenersi e attorno al quale far ruotare le scelte musicali (quest’anno è stato “Approdo ad Atlantide: l’uomo che varca i confini”). Dare risalto alle musiche libere e alla improvvisazione radicale, nel particolare al free jazz, e al contempo alle musiche popolari o che ad esse si sono ispirate, in particolare a quelle sarde; inoltre mescolandole tutte fra loro con produzioni inedite.

Anche il coinvolgimento del territorio è stato incrementato perché le cinque serate centrali del festival vero e proprio (dal 31 agosto al 4 settembre, sempre in piazza del Nuraghe a Sant’Anna Arresi e sempre in doppio concerto) sono state precedute e seguite da numerose tappe musicali nei comuni limitrofi (Piscinas, Tratalias, Is Pirixeddus, Is Solinas, Carloforte, Carbonia, Santadi, Monte Sirai), formando il cartellone denominato “Jazz Around”, con performance all’alba e a mezzanotte sulla spiaggia della vicina Porto Pino.

È quindi strano che però si sia avvertito qualcosa nell’aria che faceva percepire che un mutamento ci sia stato, seppur poco percettibile. Probabilmente a causa di qualche effettiva ma non vistosa trasformazione, come la sostituzione di alcuni collaboratori e consulenti di vecchia data, o al rimpiazzo del consueto storico server di amplificazione assieme ai suoi ormai familiari tecnici del suono, o all’istituzione di un rigido servizio d’ordine che con ogni probabilità è l’antitesi del modo di concepire l’accoglienza di Basilio, o, infine, alla figura di Novella Casula, moglie di Basilio, che si è defilata, probabilmente e credibilmente per il lutto recente, lei con il suo ristorante/agorà così significativo e importante per il festival in tutta la sua storia.

È comunque plausibile che sia solo una erronea impressione, perché la nuova direzione artistica ha certamente lavorato secondo i dettami e tutti i crismi, inoltre meritoriamente di continuo onorando Basilio, per prima cosa con una emozionante mostra fotografica in suo ricordo nella chiesa vicina al Nuraghe curata da Luciano Rossetti, che ha scelto diverse bellissime immagini (sue e di Agostino Mela, Ziga Koritnik, Enrico Romero e altri).

Il 31 agosto ha iniziato Antonello Salis al pianoforte e fisarmonica, in solitudine nella prima parte della performance, con il gruppo “Giornale di bordo” nella seconda. “È surreale stare qua senza Basilio” ha esordito Salis, che poi lo ha ricordato con affetto e commozione raccontando come è nato il festival (oltre a Salis, tutti i musicisti partecipanti, con alcuni dei quali Basilio era legato da profonda amicizia, lo hanno celebrato con parole accorate o con canti e brani dedicati, come Hamid Drake, che nella terza serata ha intonato accompagnandosi col tamburello un toccante canto africaneggiante). Poi Salis si è cimentato in una performance al piano densa, vigorosa e risoluta, a volte impetuosa, come se le sue mani danzassero con movimenti intricati fra spigolosità percussive e cluster cacofonici dirigendosi verso un caos solo apparente, perché completamente controllato. Alla fisarmonica la musica è risultata più legata alla tradizione popolare, nella fattispecie della Sardegna, ma sempre con sfrontati caustici sconfinamenti.

Lo stesso approccio Salis l’ha avuto con il “Giornale di bordo”, quartetto composto anche da Gavino Murgia ai sassofoni, Paolo Angeli alla chitarra “preparata” e Hamid Drake alla batteria, creando di continuo nuove istrioniche trame aiutato dalla sezione ritmica coesa e pronta a rispondere ad ogni sollecitazione. Ampio spazio è stato dato a quello che si può considerare, da tempo, uno dei migliori sassofonisti in circolazione, Gavino Murgia, che con irruenta vorticosa cantabilità, senza fronzoli pur nella complicatezza dell’intricato linguaggio espresso, è andato dritto al sodo ripescando di tanto in tanto stilemi coltraniani. A parte qualche eccesso nell’incaponirsi in situazioni che hanno generato effetti di saturazione (per esempio in “Dear Prudence” dei Beatles), la musica è stata piena di pathos, insieme cruda e scanzonata.

La sera dopo, Paolo Angeli si è esibito in solitudine potendo dimostrare tutto il suo estro concentrandosi a suonare la “chitarra sarda preparata” da lui creata, da cui ricava i classici suoni della chitarra tradizionale, ma anche scivola nei registri gravi con due corde più grosse e, usando l’archetto, facendola assomigliare a un violoncello. In più è pure collegata a una pedaliera multi-effetti elettronici che può incentivare la gamma di possibilità delle sonorità, arrivando anche a quelle dell’organo. La musica è ancestrale, diventando ancor più atavica con l’apporto del canto a tenores di Omar Bandinu, che ha scavato nei registri bassi creando perfetta empatia con Angeli, in una dimensione sospesa tra proposizioni aspre (con qualche noise elettronico) ed echi dolcissimi, fatta di vibrazioni tenute, sussulti e fluttuazioni microtonali e cangianti invenzioni melodiche.

In “The Crossing“, parafrasi del titolo del festival, il sassofonista e clarinettista basso Enzo Favata, il vibrafonista Pasquale Mirra, la contrabbassista Rosa Brunello e il batterista Marco Frattini fondono diversi stili in una discontinua girandola di jazz contemporaneo, minimalismo, musica elettronica, world jazz e jazz-prog degli anni Settanta, dove assordanti strade metropolitane si intersecano con piste desertiche silenziose, con costanti reiterate ipnotiche ritmiche di sottofondo.

Il vibrafonista Pasquale Mirra, si è già capito, è stato uno dei più assidui partecipanti a questa edizione del festival, assieme al sempre presente ormai da anni batterista Hamid Drake. Due maestri ai massimi livelli di tecnica ed espressività e votati, specie Mirra, alla ricerca e allo sperimentalismo, senza mai dimenticarsi le radici e il passato. Nel duo da loro formato, che ha aperto la terza serata, hanno dimostrato come si possa creare musica avvincente attraverso una piena e assoluta improvvisazione: loro basi comuni sono solo alcuni canovacci (minimi) da entrambi conosciuti, da cui con un fitto scambio di idee hanno formato un’atmosfera caleidoscopica e stordente, il vibrafono facendosi batteria (del resto è strumento percussivo) e la batteria melodizzando i suoni dei tamburi, richiamando fantasmi dall’Africa e dal lontano Oriente con ammirevole cura analitica dei suoni, senza forzature e squilibri.

Nel secondo set, la “Elephantine Band” del chitarrista e pianista egiziano Maurice Louca ha fatto perno su una solida e sfrangiata ritmica formata da due batterie (Tommaso Cappellato e Konrad Agnas), un contrabbasso (Rosa Brunello), un basso tuba (Rasmus Lund), un vibrafono (ancora Pasquale Mirra) e la chitarra elettrica del leader, ritmica che ha sostenuto, sollecitato e spinto i volutamente scomposti movimenti dei sassofonisti Daniel GahrtonIsak Hedtjarn e Piero Bittolo Bon. Si è formata una musica, solo in parte composta e comunque organizzata in alcuni precisi passaggi, che dà molto spazio alle iterazioni melodiche e agli ostinato, diversamente articolati e assemblati. Ci sono calme e tranquille situazioni ondeggianti che aumentano di volume con intensa energia evocando la Sun Ra Arkestra fra melodie danzanti orientaleggianti e caustiche esplosioni free.

Altissimo livello qualitativo per entrambi i concerti del 3 settembre. Ha aperto il “Sound Glance” composto da Marco Colonna ai sassofoni e ai clarinetti, Fabrizio Puglisi al pianoforte, Silvia Bolognesi al contrabbasso e Gunter Sommer alla batteria, per la prima volta insieme. Un super gruppo intergenerazionale che con la più ampia libertà di agire ha offerto una musica formicolante, sempre in ebollizione, piena di tensione dalla prima nota all’ultima. La coesione esecutiva e la perfetta intesa hanno corroborato la ricerca più aperta che ha portato a passaggi rarefatti e ad altri magmatici, con coinvolgenti iterazioni contrappuntate e puntillismi tenaci attraverso diversificati assemblaggi di strumenti (solo, duo, trio e quartetto), arrivando a pieni erosivi, il tutto legato da coerenza di pensiero e di stile.

A seguire uno dei maestri del “secondo free jazz”, il veterano tenor sassofonista David Murray, che da tempo, per quello che riguarda la sperimentazione e la ricerca, ha tirato i remi in barca, come del resto molti della vecchia guardia del free (basti pensare ad Archie Shepp), per tornare al passato, al classico. L’eloquio è sempre in eccitato fermento, senza scordare le sue tipiche esplosioni frenetiche che lo portano spesso a fraseggiare sugli acuti estremi per poi affondare immantinente e improvvisamente nei suoni più gravi e cavernosi (del resto, oltre a Coleman Hawkins e Paul Gonsalves, uno dei suoi mentori durante la formazione è stato Ike Quebec, l’honker che distorceva il suono e gridava nei sovracuti). L’impiantito è però tipicamente mainstream, con ampie sequenze di bop, ballad, blues e soul, convalidato dalle canoniche mosse di Aruán Ortiz al pianoforte, Bradley Jones al contrabbasso e di nuovo Hamid Drake alla batteria. Murray ha ricordato, semmai ce ne fosse stato bisogno, che nessun tenor sassofonista ha saputo creare negli ultimi tre decenni uno stile così distintivo e originale, giocato su turbinii, distorsioni, deviazioni, dettagli subito amplificati per creare un effetto di fervente vertigine.

Serata finale, il 4 settembre, con una preghiera per Basilio. Una preghiera in jazz, accorata e struggente, del tenor sassofonista James Brandon Lewis accompagnato da Alexis Marcelo al piano, Silvia Bolognesi al contrabbasso e Dudù Kouate alle percussioni e alla declamazione di poesie di Thomas Sayers Ellis (che doveva essere presente ma ha dovuto dare forfait per questioni di salute) dedicate a Jean-Michel Basquiat, uno dei più importanti esponenti del graffitismo americano. Lewis ha una bellissima voce, che riporta a Coltrane e Ayler, una voce dai fascinosi riverberi bruniti, ampia e rotonda, e un fraseggio articolato, incessante nel suo procedere. Il pathos e la teatralità vanno di pari passo con una scelta meditata di tempi e articolazioni, con ricchezza di sfumature e chiaroscuri, con il suono che diventa corpo e la voce che si intreccia coi suoni in uno scenario di toccante bellezza.

Ma non si è voluto terminare in malinconia. Del resto nei funerali di New Orleans la jazz band suonava triste e dolente andando verso il cimitero, ma poi diventava festosa nel ritorno. I friulani del gruppo “Maistah Aphrica” (gioco di parole di derivazione dialettale per indicare che i musicisti della band non sono mai stati in Africa) ha portato la musica verso briose poliritmie danzanti afrobeat, impreziosite da poderose incursioni dei fiati e dell’elettronica in uno sviluppo dei piani sonori ben congegnato e pieno di fresca energia, con colori vividi e sgargianti e ampio spettro dinamico.

Basilio lives!