Home Interviste Intervista con Enrico Pieranunzi

Intervista con Enrico Pieranunzi

12
0

Incontriamo il maestro Enrico Pieranunzi in il Monastero S. Maria di Colonna di Trani, dopo un bel concerto tenuto per il festival cittadino, insieme a Marc Johnson al contrabbasso e Marcello Di Leonardo alla batteria.

Maestro, so che ieri (7 luglio 2000) ha presentato a Roma la terza edizione del suo libro su Bill Evans. Com’e’ andata?

Bene, non c’era molta gente, dato che a Celimontana gli eventi principali sono i concerti, comunque bene. E’ la terza edizione, questa volta è stato tradotto anche in inglese da una bravissima traduttrice. Nell’ambito di queste imprese sempre eroiche a cui è abituato il jazz, è una cosa di cui sono veramente felice, forse ci sarà la prefazione di Ira Gitler (famoso critico americano n.d.r) che l’ha letto e gli è piaciuto molto.
Sai, è una gran fatica per me questo lavoro, perché non è la mia attività principale quella di scrivere libri. E’ una grossa soddisfazione. Ci saranno due CD allegati di un concerto tenuto a giugno dedicato a Bill Evans, nuove foto, insomma un gran lavoro di cui sono soddisfatto, felice.

Quanto e in che forma è presente oggi Bill Evans in Pieranunzi sia come background culturale che nell’impostazione musicale?

Il fantasma di Bill Evans è sempre presente! Mah sai, Bill Evans è presente in ogni pianista, è un punto di riferimento. Per arrivare a scrivere un libro su di lui vuol dire che in qualche modo lo si considera presente nella propria cultura. Ma comunque tutti i pianisti non possono non considerare Evans, anche fenomeni come Corea, Jarrett, Miller, non ci sarebbero stati se non ci fosse stato Evans. Qualunque pianista dagli anni ’60 in poi, coscientemente o meno, ha dovuto fare i conti con Bill Evans. Tutti i pianisti con uno studio classico alle spalle, un certo tocco, non possono non riferirsi a Evans, proprio perché Bill Evans è stato il primo ad avere un background colto e a suonare jazz. E’ come dire che chi suona sax jazz non fa riferimento a Coltrane. E’ impossibile. Poi ognuno ha la propria identità. Prende un proprio percorso, c’è chi ci riesce meglio e chi meno, ma questi sono punti di riferimento indispensabili proprio per meglio comprendere quello che può diventare il proprio linguaggio.

Che strada sta prendendo il jazz?

Rispondendo con una frase di Monk potrei dire: “Il jazz va dove gli pare”. Dove va il jazz? Il jazz segue l’evoluzione dei popoli, è sempre stato lo specchio del tempo in cui viene suonato. Oggi è molto meno facile dire cosa è jazz e cosa non lo è. Negli anni 60 si individuava il jazz in base ad un certo modo ben preciso di suonare, mentre oggi no perché c’è molta più unione di popoli, etnie, influenze di generi musicali diversi, folk. Il jazz,mi sembra di poter dire comunque, rimane l’approccio più umano alla musica. È un’opinione personale, s’intende.

Che ruolo ha la melodia in questo? C’è ancora spazio per una ricerca melodica?

La melodia è uno degli aspetti del jazz che oggi è ancora di più rivalutato. Nella musica leggera, nella musica dei giovani, la melodia è quasi totalmente sparita pertanto il jazz ha riassunto il ruolo di far cantare melodie, è diventato anche più cantabile. Se consideriamo che nella musica moderna, prima con il rap, che è parlato ed è prettamente ritmico, poi con la techno che ha freddi suoni computerizzati e privi di melodia, tranne alcuni casi, la melodia è totalmente assente. Quindi l’esposizione melodica nel jazz assume ancora più valore.

Come vede, in questo senso, le numerose sperimentazioni attualmente in voga nel jazz italiano, che in alcuni casi sono chiamati “rumori” in altri “effetti sonori”?

Li vedo bene, la ricerca è estremamente importante e il jazz è un genere che permette ricerca pertanto va fatta. Ben vengano questi festival caratterizzati da modelli sonori legati alla ricerca. Lasciamo strada alle sperimentazioni, perché alla fine il jazz è sempre stato una ricerca continua e non nutriamo pregiudizi nell’accostarci alla musica. E poi la melodia è anche nella ricerca, Garbarek fa ricerca, ma ha una grossa componente melodica.

Non pensa che ci si possano “nascondere” competenze a volta un po’ dubbie?

Mah sai, chiunque può bluffare, anche nella melodia, ma prima o poi salta fuori. Il pubblico avverte se chi sta suonando sta bluffando, certo in un ambito di ricerca è meno evidente, ma solo in apparenza, anzi a volte è addirittura più evidente. E poi tutti un po’, chi più chi meno, ogni tanto bluffano, anche Pat Metheny, pur essendo un grandissimo musicista, ogni tanto ha fatto delle cose più leggere (in tono ironico n.d.r.).

Qual è il livello delle scuole italiane e che impressione ha dei musicisti italiani?

Le scuole italiane hanno raggiunto un ottimo livello così come i musicisti. Abbiamo giovani musicisti che sono senza dubbio i migliori in Europa. Rosario Giuliani, Stefano Bollani, Luca Bulgarelli, Di Battista, Mirabassi, e tanti altri. Questi sono ragazzi fortissimi, veramente in gamba, dei talenti. Giro molto in Europa, Francia, Germania, Olanda, e posso sicuramente dire che non ci sono a livello europeo talenti come questi. E credo che le scuole di conseguenza abbiano elevato molto il loro livello didattico. Io poi non credo che il jazz si possa insegnare più di tanto. Ritengo, forse un po’ troppo romanticamente, che l’approccio al jazz sia più un rapporto allievo-discepolo come gli apprendisti di Leonardo o Michelangelo che prima facevano i garzoni di bottega e poi pian pianino imparavano e assumevano una propria identità.
Si può partire da un modello d’insegnamento precostruito, quello Berkliano per intenderci, ma poi inevitabilmente bisogna misurarsi con se stessi e imparare il jazz partendo da ciò che si è o si vuole essere. L’approccio Berklee permette in tempi relativamente brevi a molti di capire come funziona il meccanismo di questa musica e poi, ripeto, se uno vuole può e deve misurarsi con se stesso e costruirsi una propria identità. Il jazz è in ognuno di noi. Dipende molto dagli insegnanti, e il livello degli insegnanti italiani mi sembra elevato.

Per chiudere, un piccolo gioco. Tre cose che farebbe se fosse ministro della musica!

Questa è una bella domanda. Che responsabilità, ministro della musica! Mah sai, terminerei le opere che stentano a completarsi come l’auditorium della mia città, quindi gli spazi; porterei la musica anche alle elementari, quella vera, non quella dei cantanti, con tutto il rispetto, anche facendo suonare strumenti, tutti, non il solito flautino. Un sogno, ma che se fossi ministro tenterei di realizzare, è quello di documentare il jazz italiano. Il jazz in Italia, dal dopoguerra ad oggi, è un fenomeno musicale di estrema importanza. Kramer, Trovajoli, Polillo, sono loro che hanno consentito di creare i primi ponti con la musica di Ellington. Mi piacerebbe creare un grosso archivio sonoro del jazz italiano. A Siena c’è qualcosa, ma il resto è sparso un po’ in tutta l’Italia.

A tal proposito mi viene in mente il suo bel CD registrato con Ada Montellanico (“Ma l’amore no”, Soul Note, 1997) , con brani come Amore fermati, Ma l’amore no.

Grazie, ti ringrazio per averlo citato, lì è stato fatto un lavoro di riarrangiamento proprio di queste musiche assolutamente preziose e imperdibili. Un’ultima cosa che farei se fossi ministro, forse impossibile. Riporterei il jazz in televisione e alla radio. E’ sparito del tutto e non so se un ministro possa influenzare la programmazione dei media all’interno dei consigli di amministrazione, ma forse può dare delle indicazioni. Eh sì, bisognerebbe trasmettere molto più jazz.