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North Sea Jazz 2022

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Ahoy, Rotterdam – 8, 9 e 10 Luglio 2022
foto di Fabio Orlando

Solitamente si va al NSJ per rammentare la propria passione nei confronti della musica, specie se si è dotati di una capacità di ascolto duttile ed aperta alle ibridazioni di ogni tipo, posto che il “cosiddetto” jazz, costituisce una parte minore del programma, anche se i musicisti coinvolti rappresentano quasi sempre il meglio delle scelte ancora possibili.

Oppure si va per curiosare, per socializzare con la parte gaudente dell’audience cui piace darsi appuntamento nel sempre più funzionale Ahoy Center, posto nei pressi dell’imponente Porto di Rotterdam, oppure per scoprire nomi nuovi o esibizioni che altrove sarebbe quasi impossibile intercettare, come appunto i due nomi con i quali iniziamo il report dell’edizione appena trascorsa, il cui specifico esito artistico è stato a dir poco sensazionale.

Ecco Daniel Lanois, musicista e produttore in cabina di regia di alcuni dei migliori lavori di Bob Dylan, U2, Peter Gabriel, Brian Eno e tanti altri, cui parallelamente ha sviluppato una carriera solista ai margini del clamore suscitato da quei nomi così celebrati: al North Sea si è presentato in trio con il bassista Jim Wilson e la sensazionale batterista e cantante Trixie Whitley, offrendo un set denso di spiritualità, attraverso un interpretazione fortemente caratterizzata di questo suo folk sviluppato fra il natìo Canada e l’Irlanda, dove invece si è trovato lungamente a soggiornare, traendo linfa per il suo estro.

Grandi applausi ancora da un (entusiasta) pubblico di nicchia per una delle rare esibizioni dal vivo del chitarrista e compositore argentino Gustavo Santaolalla, nome di culto a Los Angeles per la sua militanza di fiducia con il regista Alejandro Iñárritu (ha firmato lui gli score di 21 Grammi e Babel) che ha presentato un set antologico di una carriera che agli inizi lo ha anche visto grande protagonista del rock sudamericano prima di far confluire tutta la sua vasta esperienza anche nel ricco settore del gaming (The Last of us, uno dei maggiori successi targato PS2, è amatissimo dai suoi giocatori anche per le nuance del relativo commento sonoro che porta la sua firma).

Scorrendo il resto del programma con l’infallibile app messa a disposizione dagli organizzatori per il pubblico circumnavigante, c’era sempre il rischio di essere travolti da una programmazione ipertrofica, che ha strizzato nelle 15 sale\location ufficiali quasi 150 concerti e circa mille musicisti al seguito.

Nella parte glamour hanno letteralmente trionfato Diana Ross e Nile Rodgers con i suoi riformati Chic: entrambi hanno avuto buon gioco nel nostalgico per quanto riuscitissimo viaggio della memoria di almeno metà dei presenti. La Ross, classe 1944 è giusto un filo troppo appesantita nella fisionomia ma ancora agilissima nella gestione del palco, con una voce che evoca i fasti di un tempo glorioso che nella sua oretta e poco più di esibizione, è sembrato quanto mai vicino ed ebbro di suggestioni.

Simile a lei in quanto a gloria il chitarrista che ha inventato il funky-riff più campionato della storia: colui che ha composto delle hit milionarie non solo per se stesso e la Ross, ma anche per Sister Sledge, Madonna, Duran Duran, Grace Jones e persino David Bowie in un percorso (quasi) netto, che ha mandato letteralmente in visibilio le migliaia di fans accorsi nella sala Nile, quella che neanche a farlo apposta, riportava il suo nome. Buoni anche i set dell’inossidabile George BensonMichael Kiwanuka e di una quanto mai stilosa Erykah Badu, forse un po’ prigioniera del suo personaggio ma sempre fresca in quanto a idee.

Esattamente come Alicia Keys, che in più suona il pianoforte strizzando l’occhio alle sue radici black con una musica capace di coinvolgere e suscitare meritati consensi.

Su quello stesso confine ritmico si sono mossi l’ormai trasversale Robert Glasper (che ha anche coordinato un bel tributo alla musica di Roy Hargrove), Makaya MccravenNate SmithJames FranciesTrombone Shorty e i Cimafunk, mentre nel confinante lembo del blues hanno mostrato buone cose il giovanissimo Christone ‘kingfish’ IngramMarcus KingEric Gales e Cory Wong.

E per quelli fra di voi che si potrebbero chiedere, anche legittimamente, se si è sentito del Jazz, rispondiamo che la razione servita a Rotterdam è stata ottima e abbondante.

A partire da Gary BartzSteve Coleman & Five ElementsCharles Lloyd & The Marvels: tre modi diversi di interpretare il linguaggio espressivo del sax, superando di slancio l’austero rigore formale a favore di una più libera creatività (esemplari come sempre i patterns poliritmici sfoderati da Coleman con i suoi spiritati partners), ed un vitalistico slancio degli spazi improvvisati da parte di un Bartz, che nulla ha perso in quanto a timbro e capacità.

A proposito di eloquio senza pari, il set di Lloyd, che nel suo gruppo annoverava i magnifici chitarristi Greg Leisz e Bill Frisell, è sembrato più che un semplice concerto una commovente meditazione sulla bellezza.

Della sua musica intanto, che poggia ancora su un fraseggio irregolare ma così denso di intuizioni da lasciare senza fiato. Frisell dal canto suo si è posto volontariamente al suo servizio, assolvendo alla sua parte con estrema disinvoltura, per un’esibizione di grande poetica e sobrietà.

Della classe infinita di Ron Carter si stenta a restare nei superlativi, di certo uno degli imprescindibili snodi nella storia di questo genere, è sempre capace di scegliere dei collaboratori molto validi ed affiatati: questa volta la menzione suppletiva tocca alla pianista Renee Rosnes, perfetta nel sottolineare la sapienza del Maestro.

Con uno sguardo ben posizionato sul presente e lo spirito di chi conosce (ottimamente) il passato, applausi scroscianti per le esibizioni di Ambrose AkinmusireJulian LageChristian McBrideAvishai CohenVijay IyerGonzalo Rubalcaba e Tigran Hamasyan che ospitava per l’occasione il giovane sassofonista Immanuel Wilkins, divenuto rapidamente una certezza non solo fra gli addetti ai lavori.

Tutti fautori di una musica apparentemente estetizzante, che ricerca nelle combinazioni timbriche il momento di aggregazione del bello, del poetico, del candore sonoro.

Per palati assai più facili invece i set di Eliane Elias (arrivata con inusuale ritardo sul palco dell’Ahoy), Melody Gardot, il cui successo appare ai più inspiegabile, Jacob Collier e Diana Krall, ormai intrappolata in un manierismo che fa calare rapidamente l’attenzione dell’ascoltatore. Molto meglio la spontanea eleganza di Stacey Kent e Cecil McLorin Salvant, cui non nuocerebbe prendere qualche rischio in più durante i suoi concerti.

E se la sassofonista Nubya Garcia, il fantastico pianista Nduduzo Makhatini e la cantante\chitarrista Fatoumata Diawara tengono saldo il legame con la grande madre Africa, in ragione di un costante esito stilistico-esecutivo di altissimo livello è stata purtroppo straziante, ma in segno opposto l’esibizione di Archie Shepp, apparso assai provato nel fisico e quindi lontanissimo dai suoi (anche recenti) buoni livelli.

L’artista in residenza invece era Herbie Hancock, istrionico e gigionesco finché si vuole, ma sempre dotato di un talento superiore.

Infine spazio alle esibizioni totalmente mancate per via dei micidiali incastri piazzati in contemporanea dal NSJ: fra quelle che più hanno lasciato rammarico Pino Palladino & Blake MillsIbrahim MaaloufLous & The YakuzaAlfa MistEliades Ochoa e Lizz Wright.