Home Articoli Intervista a Dino Betti van der Noot

Intervista a Dino Betti van der Noot

211
0

Intervistare un musicista dal tratto signorile come Dino Betti è un piacere, ancor più è intervistarlo a casa sua, fra quadri d’autore, ricordi di viaggi e l’opportunità – davvero entusiasmante – di ascoltare in anteprima il suo nuovo disco in uscita, «Brahm Dreams Still».

Dino, direi di iniziare questa intervista dal tuo nuovo disco, che mi incuriosisce molto. Vorresti raccontarne la genesi?

Come al solito non so bene perché faccio qualche cosa. Comincio a scrivere quando penso di poter comporre qualcosa di diverso rispetto a ciò che ho fatto in precedenza, perché non mi piace ripetermi. A volte, è vero, ho rifatto dei miei brani, che ho rivisto nel tempo proprio per vedere se funzionavano ancora, in un certo senso, e se potevano essere rinnovati. Però ormai da qualche anno cerco di fare della musica che spero sia sempre diversa e nuova, in maniera totalmente libera. Forse, una grande differenza rispetto a quello che facevo anni fa è che prima era difficilissimo che portassi i brani in concerto, quindi erano concepiti fondamentalmente per la registrazione, per il disco; mentre recentemente riesco a fare dei concerti, quindi nella scrittura dei brani tengo conto di questa possibilità.

Nella composizione di questo album sono accadute anche delle cose un po’ buffe, nel senso che ho scritto i primi due brani in maniera rilassata, ma successivamente ho avuto dei problemi informatici: mi scadeva la licenza per un programma. Io compongo al pianoforte, scrivo su carta e poi quello che ho scritto lo riporto nel computer in modo da avere delle parti scritte in modo decente, perché ho una pessima calligrafia, anche per le note, e so benissimo che se dessi delle partiture scritte a mano da me sarebbero quasi indecifrabili. D’altra parte, utilizzare dei copisti, come faceva per esempio Giorgio Gaslini, comporta sempre il problema di ricontrollare tutto, dato che il copista qualche errore può farlo sempre. Quindi preferisco riportare personalmente nel computer quello che ho scritto su carta, perché mi dà la possibilità di mettere sui leggii dei musicisti delle parti assolutamente perfette. Questo problema della licenza mi ha costretto scrivere a razzo, per cui uno dei brani, l’ultimo (ci tengo a dire che questi cinque brani li ho scritti nell’ordine in cui appaiono nel disco, c’è un filo conduttore fra tutti; il terzo brano, che ha semplicemente un titolo tecnico, Interlude in C – mentre tutti gli altri hanno dei titoli evocativi di stati d’animo – costituisce una specie di frattura dopo due brani molto distesi, molto lunghi, più di tredici minuti ciascuno) l’ultimo, dicevo, l’ho scritto al volo. L’abbiamo registrato, ne sono soddisfatto, è come l’avevo concepito, però mi sono accorto proprio registrandolo che avrei potuto scriverlo meglio. Quindi, successivamente, l’ho riscritto in una diversa tonalità e con qualche piccola modifica. Sono curioso di ascoltarlo dal vivo in questa nuova versione… L’esecuzione dal vivo è sempre importante, per me e per tutti i musicisti coinvolti in questa impresa: c’è l’immediata reazione del pubblico, la sensazione di un organismo collettivo che respira e partecipa all’unisono. Presenteremo queste composizioni mercoledì 19 e giovedì 20 novembre qui a Milano, al Teatro No’hma. Purtroppo i posti non sono tantissimi, ci sarà come al solito la corsa a prenotare.

Chiedevi della genesi del disco. Non saprei, perché, come dicevo, quando comincio a scrivere non so esattamente ciò che scriverò. Forse è soltanto per quel terzo brano, Interlude in C, una frattura all’interno dell’album, che ho deciso cosa precisamente dovesse essere. Gli altri è come se volessero nascere da soli, perché mi metto al pianoforte e qualcosa succede: non so perché, o meglio, forse lo so, ho determinati pensieri, determinate sensazioni, da cui nascono queste composizioni. Poi mi capita regolarmente di innamorarmi di certe sequenze melodiche – mi rendo conto che ci sono proprio dei passaggi precisi che saltano fuori ogni volta, ma questo devo accettarlo perché fa parte della mia personalità, del mio approccio alla musica.

Tornando specificamente a questo album, in un certo senso, tutto il disco vorrebbe comunicare una speranza: viviamo un momento molto duro, molto pesante da tanti punti di vista, ma io spero che, tutto sommato, l’umanità se la cavi: bisogna essere positivi. Il titolo stesso del disco, che è il titolo del primo brano, Brahm Dreams Still, Brahma sogna ancora, è ricavato da un racconto di Kipling in cui avviene un grande disastro, un’alluvione, e a un certo punto un personaggio dice: “Voi conoscete l’enigma degli dei: se Brahma smettesse di sognare non ci sarebbe più niente, né inferni né paradisi, niente. State sereni – in inglese be content – Brahma sogna ancora, quindi c’è ancora tutto”. C’è una speranza, o meglio un tentativo di condividere questa speranza che, malgrado la mia tarda età, o forse proprio per questa, continuo a nutrire, e desidero trasmettere agli altri.

Il secondo brano, A Crystalline Windless Sea, un mare cristallino senza vento, parla del mare, una mia grande passione, la sensazione di quei momenti indescrivibili e unici che solo il mare sa regalarti.

Il terzo brano è Interlude in C che, come già detto è una frattura di cui avevo bisogno all’interno dello svolgimento dell’album: un’atmosfera completamente diversa da tutto quello che lo precede e lo segue.

Il quarto, Faraway Mountains Turning into Clouds, potrebbe essere definito un canto d’amore, amore per le persone o per la natura, ed esprime anche questo senso di vedere le cose da lontano, da una prospettiva che ti pone degli interrogativi. Io in settembre compio 89 anni e, come nel disco precedente dicevo che non riuscivo più a capire se le cose che ho vissuto fossero realtà o fossero un sogno, in questo caso uso la metafora delle montagne che non capisci bene, quando sono lontane, se sono davvero montagne oppure nuvole. La frase è tratta da Shakespeare, che l’ha scritta in modo lievemente diverso nel Sogno di una notte di mezza estate. Lui scriveva far-off mountains turning into clouds e, piuttosto di far-off, che è bellissimo ma desueto, ho preferito usare faraway, per noi più chiaro.

Infine l’ultimo brano, Aux premières heures bleues, un verso di Rimbaud che nella sua musicalità ti apre orizzonti molteplici, si riferisce a quelle ore in cui non sai più bene se è giorno o notte, le ore in cui il cielo assume un colore che non è più l’azzurro del giorno ma non ancora il blu della notte. È una conclusione positiva, nel senso che mentre gli altri brani del disco possono essere definiti per la maggior parte meditativi, in questo caso suggerisce positività.

Tornando alla tua domanda su come nasce la mia musica, devo dirti che c’è sempre anche un pensiero più razionale rispetto alla cosiddetta “ispirazione” che viene usando un pianoforte, ed è quello di dare la chance ai musicisti che suoneranno queste musiche di fare delle cose che vanno oltre il limite che si sono dati normalmente, di creare situazioni che diano la possibilità di fare emergere tutte le loro potenzialità. Senti per esempio Cerino con questi due assoli bellissimi: ha fama di essere un musicista acrobatico, qui invece fa degli assoli estremamente pensosi, secondo me stupendi. E Mandarini, con questo assolo di flicorno fantastico, Visibelli che suona con un’intensità incredibile; Cattaneo, il cui pianoforte ho voluto fosse un filo conduttore in tutto il disco; Calcagno al trombone con un assolo di una raffinatezza assoluta; il sound particolarissimo, capace di sfumature raffinatissime, di Parrini. Begonia che suona in tutta libertà. C’è qualcuno che forse è meno in evidenza, come per esempio Mariotti, Ciceri, Brignoli, Manzoli, perché sono più inseriti in un contesto obbligato, contribuendo però in maniera fantastica a completare le composizioni. Quello che forse varrebbe la pena di sottolineare, e che cerco di fare, è che i solisti esprimono sì se stessi, ma che gli assoli sono parte della composizione. Voglio dire che non scrivo delle composizioni in cui ci sono degli assoli, ma gli assoli sono parte essenziale della composizione. Anche, per esempio, dei musicisti come Gusella o lo straordinario Zitello all’arpa, che forse non sembrano essere così in evidenza, sono assolutamente insostituibili: tutto e tutti fanno parte del pensiero compositivo. Come i tre percussionisti, che sono fondamentali proprio perché hanno tre personalità differenti, e la somma di queste tre personalità, di questo modo differente l’uno dall’altro di concepire la percussione, offre un’ampiezza percussiva avvolgente e sempre molto attenta al fluire della musica. E, per finire, il ruolo del basso elettrico, molto differente, nella mia concezione orchestrale, rispetto a quello che è codificato: di solito è una colonna dal punto di vista ritmico, mentre qui è in un dialogo continuo e libero con tutta l’orchestra.

Andiamo adesso all’inizio: quando, e in che modo è nato il tuo amore per il jazz orchestrale?

È nato con Stan Kenton. Avevo 18 anni, o forse anche meno. A 19 anni ho comprato i primi due dischi: uno di Mulligan e uno di Kenton, erano dei 78 giri, siamo nella preistoria. E mi sono innamorato di questo suono orchestrale. Successivamente ho visto i limiti, o meglio, i non limiti e i limiti di Kenton. I non limiti dal punto di vista tecnico, nel senso che ha portato delle innovazioni straordinarie dal punto di vista orchestrale; i limiti erano molto spesso del tipo – come si può dire – di “épater le bourgeois”, più per la scena che per la sostanza. Era troppo. Anche se poi ci sono delle composizioni di una bellezza assoluta, pensa a Opus in Pastels, a Fantasy, entrambe composte da Kenton, alla bellezza di certe composizioni di Rugolo (Kenton diceva Ràgalo, proprio in questa stanza) come Fugue for Rhythm Section.

Tu ovviamente lo hai conosciuto personalmente.

Si, negli ultimi anni. E, devo dire, non mi piaceva più. L’orchestra era impressionante, però era troppo spettacolare. Secondo me ci deve essere un equilibrio, va bene la spettacolarità, va bene tutto, però deve esserci qualche cosa che ti prende, non esclusivamente spettacolarità. Perché altrimenti andiamo ai concerti di un certo tipo di pop-rock, capisci? È diverso: la mia concezione di jazz è legata appunto a Mulligan, al Modern Jazz Quartet, a Ellington, al Woody Herman delle composizioni di Ralph Burns, al meraviglioso Mingus, a Parker, soprattutto al Parker e Gillespie di quel meraviglioso disco comparso una ventina di anni fa, perché non era mai stato pubblicato, un concerto alla Town Hall New York nel ’45, forse il più bel disco di bebop che esista dal mio punto di vista, dove senti l’innovazione che esplode. È il problema dell’emozione di qualcosa che nasce in quel preciso momento: quando ascolti Birth of the Cool è meraviglioso, ma quando Mulligan l’ha ripetuto con dei grandi strumentisti – alcuni che facevano parte anche della prima orchestra – non percepisci più quel senso del creare, la freschezza dell’esplorare. Il jazz è molto diverso dalla musica classica: nella classica c’è un approfondimento continuo di quello che è stato scritto. Nel jazz invece dovrebbe esserci, almeno questo è il mio punto di vista, un rinnovarsi continuo, senza mai ripetere quello che si è fatto o che hanno fato gli altri. Poi sì, succede che ci si ripeta, vivaddio, mi sono accorto che ci sono dei frammenti melodici che io tiro fuori regolarmente; nello stesso disco ci sono degli stilemi in un brano che ritrovi pari pari in un altro, magari mascherati sotto una forma diversa, però nel sottofondo nati dallo stesso pensiero.

Tieni presente che, comunque, io ho sempre avuto un grande amore per le grosse formazioni. Ho studiato violino, come forse sai, ed ero un pessimo violinista, veramente pessimo. Il mio violino è ancora lì, purtroppo muto, un violino francese del Settecento. Ma la rivelazione (l’epifania) c’è stata suonando in orchestra una composizione di Schubert: l’emozione di ascoltare il tuo suono, che però non è soltanto il tuo, perché è anche il suono dell’orchestra. Tu sei parte di un suono globale, ed è una sensazione di una bellezza, ti assicuro, incredibile. Soltanto chi l’ha provata può spiegarla, o forse neanche, perché è una sensazione talmente intensa che non riesci a descriverla. Aggiungi che non sono uno strumentista: anche se ho suonacchiato tanti strumenti, il sassofono, il basso, la chitarra, il flauto, eccetera, non sono stato e non sarò mai un buon esecutore, e allora sono costretto a scrivere. Ma scrivere per un piccolo gruppo no, scrivo per un grande gruppo, che mi dà la possibilità di avere una somma di timbri molto ricca. Infatti, vedi che utilizzo degli strumenti che normalmente non vengono usati nelle orchestre jazz, e che nella mia orchestra ci sono sempre dei polistrumentisti.

Per quanto riguarda il processo compositivo, mi incuriosiva il fatto che dicevi prima che componi al pianoforte. Ma in che modo la tua vita, il tuo amore per i viaggi, per il mare, rientrano nelle tue composizioni? Perché io sento tutto questo nella tua musica.

Sai, credo che ognuno esprima quello che ha dentro. Se ha dentro poco, può anche fare delle cose tecnicamente molto interessanti ma non coinvolgenti nel profondo; se ha molto, esprime quel molto, malgrado le proprie limitazioni tecniche. Perché ha un assoluto bisogno di esprimerlo. Cioè, in sostanza, mi accorgo che per me è più semplice comunicare certi momenti, certe sensazioni, attraverso delle note che non attraverso delle parole, anche se poi le parole riesco magari a utilizzarle decentemente: in fondo ho fatto il pubblicitario per tutta la vita. Però ci sono delle cose che possono essere espresse soltanto con le note: dei sentimenti, degli amori, degli affetti, cose che potrebbero addirittura far male alle persone se espresse in parole, e che invece se le esprimi con delle note possono far bene.

Vuoi concludere con una riflessione finale?

Sai, ogni volta che finisco un disco, sono convinto che non riuscirò a farne un altro.

Per quale motivo?

Perché mi sembra di aver detto tutto quello che potevo dire. Perché non vorrei riprendere i miei brani, anche se a volte, come ti dicevo, li ho ripresi, più che altro per la curiosità di capire se stavano ancora in piedi.

Tuttavia non è così, perché ogni volta, invece, l’ispirazione torna e torna rinnovata.

Non so, guarda che, a questo punto, gli anni sono tanti, e quindi…

Ma io ti auguro di farne almeno altri venti, di dischi. Grazie davvero per l’intervista!

Discografia (sintetica) di Dino Betti Van Der Noot

Basement Big Band, 1977 Edizioni dell’Isola EIJ 2023
(1 Basement Big Blues (DBvdN); 2 Take The ‘A’ Train (B. Strayhorn); 3 Laura (D. Raksin); 4 The Preacher (H. Silver); 5 Intermission Riff (R. Wetzel); 6 Satin Doll (B. Strayhorn-D. Ellington) (from a B. Friedman arr.); 6 Lester Leaps In (L. Young); 7 The First G. L. Blues (DBvdN))

Nei seguenti album solo composizioni originali di Dino Betti Van Der Noot:

A Midwinter Night’s Dream, 1983 Five Record FM 13511
(A Long Train of Memories: 1 The Basic Riff; 2 She’s Got A Cobalt Chord Core; 3 Blue Gal of My Life; 4 Blues in Velvet; Flaming Blues; Blues in Velvet (reprise); 5 A Midwinter Night’s Dream; 6 Georgica; 7 And Suddenly in June)

Here Comes Springtime, 1985 Soul Note 121149
(1 Eterni sono gli atti d’amore (Acts of Love Are Forever); 2 Just The Way We Live Tonight; 3 October’s Dream/Caro Arrigo (Dear Arrigo)/October’s Dream; 4 Here Comes Springtime; 5 So Far Away from You)

They Cannot Know, 1987 Soul Note 121199
(1 They Cannot Know; 2 Midwinter Sunshine; 3 Insieme; 4 Memories from a Silent Nebula; 5 A Midwinter Night’s Dream; 6  Jeu de Pommettes)

A Chance for a Dance, 1988 Innowo IN 800
(1 A Chance for a Dance; 2 Sorry – I’m Mine; 3 Don’t You Feel This Way Too – Sometimes?; 4 Blue Gal of My Life; 5 Another Basic Riff)

Space Blossoms, 1989 Innowo IN 800
(1 Space Blossoms; 2 Just Two of a Kind; 3 I Wasn’t Able to Feel the Magic Anymore; 4 Florence – An Explosion of Light within Your Eyes; 5 Velvet Is the Song of Drums from Afar; 6 Stringing Moon Pearls to a Lonely Idol)

Ithaca/Ithaki, 2005 Soul Note 121399-2
(1 Ithaca/Ithaki; 2 Acts of Love Are Forever (lyrics by Lou Faithlines); 3 Crickets in A Delphic Night; 4 My Constant Thought; 5 Sidereal Waves)

The Humming Cloud, 2007 Sam Production SAM 9008
(1 The Humming Cloud; 2 Hubris and Dust (lyrics by Stash Luczkiw); 3 In a Constant Light; 4 From Darkness to Light; 5 Our Wild Shangri-La (lyrics by Lou Faithlines); 6 Lullaby for a Lion)

God Save the Earth, 2009 Sam Production SAM 9026
(1 God Save the Earth (lyrics by Stash Luczkiw); 2 In the Beginning Was Beauty; 3 Maybe; 4 Like a Circle in the Water; 5 Alone in the Crowd; 6 City Mornings (lyrics by Lou Faithlines))

September’s New Moon, 2011 Sam Production SAM 9036
(1 September’s New Moon; 2 When Love Fails (lyrics by Lou Faithlines); 3 Bluesea; 4 A Muse in Wonderland; 5 To Those Who Loved Us – To Those Who’ll Love Us)

The Stuff Dreams Are Made On, 2013 Incipit INC 168
(1 The Stuff Dreams Are Made On; 2 Our Heavenly Land; 3 Moonscape; 4 Just to Amuse a Muse; 5 Not Merry Not Sad)

Notes Are But Wind, 2015 Stradivarius STR 57915
(1 Notes Are But Wind; 2 Memories from a Silent Nebula; 3 In the Deep Bosom of the Ocean; 4 Midwinter Sunshine; 5 The Rest Is Music – dedicated to Giorgio Gaslini      )

Où sont les notes d’antan?, 2017 Stradivarius STR 57916
(1 Où sont les notes d’antan?; 2 That Muddy Mirror; 3 Velvet Is the Sound of Drums – from Afar; 4 The Paths of Wind; 5 Threading the Dark-Eyed Night)

Two Ships in the Night, 2019 Audissea ADA 014
(1 The Deafening Silence of the Stars; 2 Those Invisible Wings; 3 A Thousand Twangling Instruments; 4 Blue Gal of My Life; 5 Something Old, Something New: Somehow Blues; 6 Two Ships in the Night)

The Silence of the Broken Lute, 2021 Audissea ADA 015
(1 The Silence of the Broken Lute; 2 Listen for the Sea-Surge; 3 Here comes Springtime; 4 Our Nostos; Souriante épanouie ravie)

Let Us Recount Our Dreams, 2023 Audissea ADA 016
(1 Let Us Recount Our Dreams; 2 Children of the Zodiac; 3 Love Song for a Blue Gal; 4 High Seas; 5 The Night’s Black Mantle)

Brahm Dreams Still, 2025 Audissea ADA 017
(1 Brahm Dreams Still; 2 A Crystalline Windless Sea; 3 Interlude in C; 4 Faraway Mountains Turning into Clouds; 5 Aux premières heures bleues)